IL LATTE IN POLVERE NEI FORMAGGI

 

 

Tra luglio e agosto del 2015 ho visitato la grandiosa Esposizione universale di Milano.

Quando sono entrato nel padiglione della Coldiretti, mi è stato chiesto di leggere e di firmare una petizione con la quale – così mi è stato detto – si voleva impedire la circolazione in Italia di formaggi prodotti a partire dal latte in polvere.

Non ho ritenuto opportuno leggere, ma ho preferito discuterne con una persona addetta all’accoglienza dei visitatori nel padiglione citato.

Dopo avere detto che preferisco i formaggi ottenuti a partire dal latte fresco, ho precisato che, a mio avviso, essa avrebbe incontrato forti opposizioni in ambito europeo per il suo possibile contrasto con il principio giuridico comunitario della libera circolazione delle merci.

Ho concluso suggerendo di modificare la petizione in esame, puntando a ottenere la previsione in ambito europeo – o almeno nazionale – dell’obbligo di indicare, nella etichetta di tutti i prodotti lattiero-caseari la presenza in essi, sia del latte fresco, sia di quello conservato, e la loro percentuale sulla massa complessiva del prodotto finale.

Questo per consentire al consumatore di essere informato al fine di effettuare una scelta consapevole[1].

 

SVOLGIMENTO DEI FATTI

 

Una volta rientrato a Roma, per documentarmi meglio su questo argomento, ho effettuato una ricerca su internet di cui espongo qui di seguito i risultati più importanti[2].

Tutto è iniziato il 17 gennaio 2013, quando il parlamentare europeo Oreste Rossi rivolgeva alla Commissione dell’Unione Europea un’interrogazione con richiesta di risposta scritta avente a oggetto la “normativa sul latte concentrato e le disparità di trattamento”.

La risposta veniva fornita il 06 marzo 2013[3].

La successiva attività istruttoria svolta dalla stessa Commissione ha portato, nel maggio 2015, a una richiesta all’Italia di presentare delle osservazioni[4] per quanto attiene al divieto, previsto dalla legge italiana, di detenzione e utilizzo di latte conservato per la fabbricazione di prodotti lattiero-caseari[5], ipotizzando a tale riguardo la violazione del principio della libera circolazione delle merci nell’ambito dell’Unione Europea[6].

Va detto, inoltre, che la questione in esame presenta due aspetti diversi: quello economico e quello attinente alla qualità dei prodotti lattiero-caseari italiani[7].

Il 28 giugno 2015, il Ministro italiano delle politiche agricole, alimentari e forestali Maurizio Martina ha emanato un comunicato stampa in merito alla citata richiesta all’Italia di presentare delle osservazioni[8].

Il 02 luglio 2015, in Commissione agricoltura della Camera dei deputati, il vice-Ministro per le politiche agricole Andrea Olivero ha risposto alle interrogazioni che alcuni deputati hanno rivolto al Governo italiano su questa vicenda.

Dopo avere esposto il contenuto delle varie comunicazioni ufficiali intercorse in proposito tra l’Unione Europea e l’Italia[9], il vice-Ministro ha efficacemente riassunto le due principali obiezioni italiane alla richiesta europea di abolire il divieto di detenzione e utilizzo di latte conservato per la fabbricazione di prodotti lattiero-caseari[10].

La prima di esse ribadisce che, nell’ordinamento italiano, non vi è alcuna norma che proibisca l’importazione o la circolazione del latte in polvere.

Pertanto, non può condividersi la preoccupazione della Commissione dell’Unione Europea su una presunta restrizione in Italia del mercato così detto “equivalente” all’importazione di latte in polvere.

La seconda obiezione si appunta sul fatto che la materia in esame non è stata ancora fatta oggetto di un intervento normativo da parte dell’Unione Europea volto ad armonizzare le varie discipline nazionali.

Di conseguenza, ciascuno Stato conserva la facoltà di legiferare in proposito per tutelare le proprie specificità e tradizioni.

Il vice-Ministro ha anche precisato che la normativa in vigore sulla DOP[11] e sulla IGP[12] riguarda prodotti specifici e zone di produzione determinate, mentre la Commissione dell’Unione Europea chiede l’abrogazione di una norma di legge[13] che riguarda l’intero settore lattiero-caseario italiano.

Ritengo importante sottolineare che il vice-Ministro ha dato conto del fatto che, nella lettera del 28 maggio 2014, la Commissione ha proposto al Governo italiano di sostituire la citata norma di legge con una disciplina delle etichette che preveda la comunicazione della eventuale presenza del latte in polvere nei prodotti lattiero-caseari.

Il 09 luglio 2015, l’associazione internazionale Slow Food ha lanciato una petizione via internet per dire no all’uso del latte in polvere nella fabbricazione del formaggio[14].

Il 10 luglio 2015, il Segretariato generale della Commissione Europea ha comunicato alla Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea la proroga del termine, per presentare le richieste osservazioni, dall’originaria scadenza del 28 luglio 2015 al 29 settembre 2015.

Il 05 agosto 2015, la Commissione agricoltura della Camera dei deputati ha approvato una risoluzione unitaria che impegna il Governo italiano, tra l’altro, ad assumere iniziative per la revisione del regolamento europeo numero 1169/2011 al fine di introdurre l’obbligo di indicare l’utilizzo di latte fresco o conservato nell’etichetta dei prodotti lattiero-caseari[15].

 

CONSIDERAZIONI GIURIDICHE

 

Alla luce di tutti i fatti sin qui accaduti, ritengo convincenti le obiezioni italiane esposte dal vice-Ministro Andrea Olivero nella seduta del 02 luglio 2015 in Commissione agricoltura della Camera dei deputati.

Ciò non ostante, nell’attesa degli sviluppi della procedura comunitaria in corso, propongo di dare seguito alla richiesta della Commissione dell’Unione Europea[16]: adottare una normativa nazionale sulle etichette dei prodotti lattiero-caseari commercializzati in Italia che preveda l’obbligo di dichiarare la presenza in essi, sia del latte fresco, sia di quello conservato, e la loro percentuale sulla massa complessiva del prodotto finale.

Questa scelta avrebbe numerosi vantaggi.

Sarebbe difficilmente criticabile in ambito europeo in considerazione del fatto che essa recepisce, come ho detto, una richiesta della stessa Commissione.

Nel caso in cui la procedura comunitaria in corso avesse un esito favorevole per l’Italia, questa norma fornirebbe comunque al consumatore un’informazione in più per poter effettuare una scelta consapevole nell’acquisto di prodotti lattiero-caseari provenienti da paesi europei nei quali è lecito aggiungere, durante la loro fabbricazione, del latte conservato.

Nella malaugurata ipotesi in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea dichiari illegittimo il divieto, previsto dalla legge italiana, di detenzione e utilizzo di latte conservato per la fabbricazione di prodotti lattiero-caseari, la norma suddetta offrirebbe comunque una valida protezione contro il tentativo di immettere in Italia dei prodotti del settore in parola senza specificarne la composizione.

 

AGGIORNAMENTI

 

Il 13 luglio 2016 la Repubblica italiana ha notificato alla Commissione e agli altri Stati membri dell’Unione Europea la proposta di una nuova normativa nazionale in materia di etichettatura del latte e dei prodotti lattiero-caseari[17].

La Commissione dell’Unione Europea non ha espresso parere negativo al riguardo entro il termine di legge[18].

Il 20 ottobre 2016 lo schema di decreto contenente la nuova normativa in parola otteneva la manifestazione di intesa da parte della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano[19].

Dopo avere acquisito il parere favorevole delle competenti Commissioni parlamentari della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica, il 09 dicembre 2016 è stata data comunicazione dell’avvenuta firma del decreto in parola da parte del Ministero dell’agricoltura e del Ministero dello sviluppo economico[20].

Il 19 gennaio 2017 il decreto è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana[21] ed è entrato in vigore il 19 aprile dello stesso anno[22].

Il 03 aprile 2017 è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana[23] la circolare del 24 febbraio dello stesso anno che fornisce dei chiarimenti sulle modalità applicative del decreto del 09 dicembre 2016.

 

Vi ringrazio per la vostra attenzione.

 

NOTE A PIE’ DI PAGINA

[1] Il “diritto dei consumatori all’informazione” è espressamente previsto dall’articolo 1, comma 2, del regolamento (UE) numero 1169/2011, del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L304 del 22 novembre 2011.

Per quanto riguarda le finalità di fornire al consumatore le informazioni che gli consentano di effettuare una scelta consapevole, nonché quella di prevenire qualunque pratica in grado di indurlo in errore, si veda:

  • – l’articolo 8 del regolamento (CE) numero 178/2002, del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L31 del 1° febbraio 2012;

e, nel regolamento nel regolamento (UE) numero 1169/2011, citato, si vedano:

  • – i considerando 4, 18, 20, 24, 26, 27, 29, 34, 37, 39, 41, 42, 46, 47, 48, 51;
  • – gli articoli 1, commi 1, 2 (citato poc’anzi) e 3, primo periodo; 3, comma 1; 4, comma 2; 8, comma 4; 19, comma 2; 21, comma 2, primo periodo; 23, comma 2; 30, comma 6; 33, commi 1 e 5; 35, comma 1, lettere c) e d); 36, comma 2, lettera b) e comma 4; 39, comma 1, lettera b); 46; 49, primo periodo; 50;
  • – e l’allegato VIII, articolo 1, lettera a), punto IV.

[2] La ricerca in parola è stata effettuata il 04 settembre 2015.

[3] Si veda: Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea, C 347 E, del 28 novembre 2013, interrogazione numero E-000494/13, versione italiana pagina 294, versione inglese pagina 295. Qui di seguito riporto il testo integrale della versione italiana.

Interrogazione con richiesta di risposta scritta E-000494/13 alla Commissione Oreste Rossi (EFD) (17 gennaio 2013)

Oggetto: Normativa sul latte concentrato e le disparità di trattamento

In Italia la legge 11 aprile 1974 n. 138 vieta la detenzione, la commercializzazione e l’utilizzo del latte in polvere e di latte conservato con qualunque trattamento chimico, o comunque concentrati, per la produzione di latte UHT e dei prodotti lattiero caseari. Tale posizione italiana è stata riconfermata dal decreto legge 175/2011 per il recepimento della direttiva UE 2007/61/CE relativa a taluni tipi di latte conservato parzialmente o totalmente disidratato destinato all’alimentazione umana.

Le aziende produttrici di yogurt (per la cui produzione il latte concentrato è un ingrediente essenziale) in Italia, sono, quindi, obbligate a trasportare una quantità di latte maggiore di quella di cui avrebbero bisogno perché, a causa della citata legge, non possono operare il processo di concentrazione all’origine e poi trasportare il prodotto negli stabilimenti.

Questa normativa crea un ingente danno economico e competitivo alle aziende, essendo un ostacolo all’ottimizzazione dei costi logistici e ad una maggiore efficienza del processo produttivo. Inoltre, in base ai principi di libera circolazione nel mercato interno, si viene a creare una situazione di disparità rispetto ad altri paesi europei, come ad esempio Belgio e Francia, che possono utilizzare latte concentrato per la fabbricazione di prodotti lattiero caseari.

Può la Commissione far sapere se ritiene che la permanenza in vigore in Italia della legge 11 aprile 1974 n. 138 e il recepimento della direttiva 2007/61/CE siano in linea con il diritto dell’Unione europea?

Risposta di Dacian Cioloș a nome della Commissione (6 marzo 2013)

La Commissione ringrazia l’onorevole parlamentare per le informazioni riguardanti la legge 11 aprile 1974, n. 138, che vieta la detenzione, la commercializzazione e l’utilizzo del latte in polvere e del latte conservato con qualunque trattamento chimico, o comunque concentrato, per la produzione di alcuni prodotti lattiero-caseari. Per dare una risposta a questa interrogazione, la Commissione sta raccogliendo le informazioni riguardanti il recepimento della direttiva 2001/114/CE del Consiglio del 20 dicembre 2001 [nota a pie’ di pagina: GU L 15 del 17.1.2002, pag. 19. Direttiva modificata dalla direttiva 2007/61/CE (GU L 258 del 4.10.2007, pag. 27) ] in Italia e comunicherà al più presto le risultanze di tale ricerca.

[4] In base all’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che recita:

La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.

Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia dell’Unione europea.”.

[5] Articolo 1 della legge 11 aprile 1974, numero 138, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, numero 117, del 07 maggio 1974 e successive modificazioni e integrazioni che recita:

È vietato detenere, vendere, porre in vendita o mettere altrimenti in commercio o cedere a qualsiasi titolo o utilizzare:

a) latte fresco destinato al consumo alimentare diretto o alla preparazione di prodotti caseari al quale sia stato aggiunto latte in polvere o altri latti conservati con qualunque trattamento chimico o comunque concentrati;

b) latte liquido destinato al consumo alimentare diretto o alla preparazione di prodotti caseari ottenuto, anche parzialmente, con latte in polvere o con altri latti conservati con qualunque trattamento chimico o comunque concentrati;

c) prodotti caseari preparati con i prodotti di cui alle lettere a) e b) o derivati comunque da latte in polvere;

d) bevande ottenute con miscelazione dei prodotti di cui alle lettere a) e b) con altre sostanze, in qualsiasi proporzione.

È altresì vietato detenere latte in polvere negli stabilimenti o depositi, e nei locali annessi o comunque intercomunicanti, nei quali si   detengono o si lavorano latti destinati al consumo alimentare diretto o prodotti caseari.

È escluso dal divieto di cui al primo comma il latte liquido ottenuto dal latte in polvere puro o miscelato con altre sostanze che abbia subito tutti i trattamenti idonei a qualificarlo del tipo “granulare e a solubilità istantanea” e che sia destinato al consumo alimentare immediato dell’utente, purché il suddetto prodotto sia distribuito tramite apparecchiature automatiche e semiautomatiche nelle quali la miscelazione del latte in polvere con le altre sostanze avvenga al momento stesso in cui l’utente si serve dell’apparecchiatura. La dose massima di bevanda fornita per ogni singola erogazione non può superare i 150 centilitri. È vietata l’installazione di distributori che forniscono bevande di cui al presente comma nei bar, ristoranti e luoghi affini; negli alberghi e nelle mense, di qualunque genere e tipo, tale divieto è limitato alle cucine ed ai locali adibiti alla distribuzione ed al consumo dei pasti.”.

[6] Si veda: Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, XVII Legislatura, Atti parlamentari, seduta del 09 luglio 2015, allegato B ai resoconti, pagina 26988:

il 28 maggio 2015 la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione europea ha ricevuto una lettera di costituzione in mora, nella quale, a seguito di una denuncia pervenuta alla Commissione europea, si richiama « l’attenzione dell’Italia » sul divieto di detenzione e utilizzo di latte in polvere, latte concentrato e latte ricostituito per la fabbricazione di prodotti lattiero caseari, previsto dall’articolo 1 della legge 11 aprile 1974 n. 138, chiedendone la modifica in quanto restrittiva rispetto alle norme sulla libera circolazione delle merci nel mercato comune (11 Corriere della Sera, 29 Giugno 2015);”.

[7] Si veda: Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, XVII Legislatura, Atti parlamentari, seduta del 09 luglio 2015, allegato B ai resoconti, pagine 26988-26989:

sebbene la richiesta della Commissione europea non riguardi direttamente i prodotti Dop e Igt, secondo Coldiretti la caduta del divieto ex articolo 1 legge 138 del 1974, comporterebbe conseguenze pesanti per il settore, dal momento che « con 1 chilo di polvere di latte che costa 2 euro, è possibile produrre 10 litri di latte, 15 mozzarelle o 64 vasetti di yogurt e tutto con lo stesso sapore », ma abbattendo significativamente i costi di produzione e mettendo perciò a rischio circa 487 produzioni casearie tipiche (Ansa, 8 giugno 2015);

il problema attiene quindi al rischio che il « mercato », una volta decaduto il divieto della legge 138 del 1974 (come chiede la Commissione europea), possa penalizzare prodotti caseari comuni, che in Italia godono comunque di livelli qualitativi alti, in favore di prodotti realizzati con latte in polvere, qualitativamente inferiore, ma più competitivo in termini di prezzo. Un adeguamento al ribasso che oltre a colpire i consumatori, danneggerebbe fortemente anche le produzioni lattiero casearie locali;”.

[8]Difenderemo fino in fondo la qualità del sistema lattiero caseario italiano e la trasparenza delle informazioni da dare ai consumatori. Ribadiremo alla Commissione europea la necessità di un intervento più approfondito sull’etichettatura del latte, che sappia rispondere meglio alle esigenze dei nostri produttori soprattutto dopo la fine del regime delle quote. Non siamo disposti a fare passi indietro su questi principi. È importante comunque ribadire che non sono interessati da questa vicenda i nostri grandi formaggi Dop, per i quali non sarà mai possibile l’utilizzo di materie prime diverse da quelle previste dai disciplinari. Nel frattempo continueremo a portare avanti un lavoro di confronto con le organizzazioni agricole e con la filiera e gli altri Ministeri interessati per evitare penalizzazioni da parte dell’Unione europea.”.

Il comunicato stampa è presente sul sito internet www.politicheagricole.it alla data del 04 settembre 2015.

[9] Si veda: Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, XVII Legislatura, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari, Agricoltura (XIII), seduta di giovedì 02 luglio 2015, allegato 1, pagine 191-192 ed allegato 3, pagine 194-195.

[10] Si veda: Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, XVII Legislatura, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari, Agricoltura (XIII), seduta di giovedì 02 luglio 2015, allegato 5, pagina 197.

[11] Denominazione di Origine Protetta.

[12] Indicazione Geografica Protetta.

[13] L’articolo 1 della legge 11 aprile 1974, numero 138, citato.

[14] Essa è indirizzata agli organi dell’Unione Europea (Commissione, Parlamento e Consiglio), al Ministero delle politiche agricole, alimentarie forestali della Repubblica italiana ed è sostenuta da organizzazioni del settore agro-alimentare italiano (ad esempio, Coldiretti), nonché da vari parlamentari italiani. La petizione è presente in diverse lingue sul sito www.change.org alla data del 04 settembre 2015.

[15] Si veda: Camera dei Deputati della Repubblica Italiana, XVII Legislatura, Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari, Agricoltura (XIII), seduta di mercoledì 05 agosto 2015, discussione in Commissione, pagine 329-332 ed allegato 4 (risoluzione unitaria approvata), pagine 342-346.

[16] Si veda la lettera della Commissione dell’Unione Europea all’Italia del 28 maggio 2014, citata nel testo.

[17] La notifica in parola è disciplinata dall’articolo 45 “Procedura di notifica” del regolamento (UE) numero 1169/2011 citato nella nota numero 1 di questo articolo.

L’articolo 45 ora citato recita:

  1. Nei casi in cui è fatto riferimento al presente articolo, gli Stati membri che ritengono necessario adottare nuova normativa in materia di informazioni sugli alimenti notificano previamente alla Commissione e agli altri Stati membri le disposizioni previste, precisando i motivi che le giustificano.
  2. La Commissione consulta il comitato permanente per la catena alimentare e la salute degli animali istituito dall’articolo 58, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 178/2002, se ritiene tale consultazione utile o su richiesta di uno Stato membro. In tal caso, la Commissione garantisce la trasparenza di tale processo per tutte le parti interessate.
  3. Lo Stato membro che ritenga necessario adottare nuova normativa in materia di informazioni sugli alimenti può adottare le disposizioni previste solo tre mesi dopo la notifica di cui al paragrafo 1, purché non abbia ricevuto un parere negativo dalla Commissione.
  4. Se il parere della Commissione è negativo, prima della scadenza del termine di cui al paragrafo 3 del presente articolo la Commissione avvia la procedura d’esame prevista all’articolo 48, paragrafo 2, per stabilire se le disposizioni previste possano essere applicate, eventualmente mediante le modifiche appropriate.
  5. La direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione[nota a pie’ di pagina numero 38:  GU L 204 del 21.7.1998, pag. 37] non si applica alle disposizioni che rientrano nella procedura di notifica di cui al presente articolo.

Il sottolineato è mio.

[18] Il termine di tre mesi di cui al comma 3 del citato articolo 45 è scaduto alla mezzanotte del 14 ottobre 2016.

[19] Lo schema di decreto è consultabile in:

http://www.foodagriculturerequirements.com/wp-content/uploads/2016/10/SCHEMA-DECRETO-ORIGINE-LATTE-E-PRODOTTI-LATTIERO-CASEARI.pdf .

L’intesa sullo schema di decreto è consultabile in:

http://www.statoregioni.it/Documenti/DOC_055368_Rep.%20190%20CSR%20%20Punto%2011%20odg.pdf .

[20] Il comunicato è consultabile in: https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/10708 .

Il comunicato in parola descrive le novità introdotte dal decreto nei termini seguenti:

Il decreto prevede che il latte o i suoi derivati dovranno avere obbligatoriamente indicata l’origine della materia prima in etichetta in maniera chiara, visibile e facilmente leggibile.

Le diciture utilizzate saranno le seguenti:

a) “Paese di mungitura: nome del Paese nel quale è stato munto il latte”;
b) “Paese di condizionamento o trasformazione: nome del Paese in cui il prodotto è stato condizionato o trasformato il latte”.

Qualora il latte o il latte utilizzato come ingrediente nei prodotti lattiero-caseari, sia stato munto, confezionato e trasformato, nello stesso Paese, l’indicazione di origine può essere assolta con l’utilizzo di una sola dicitura: ad esempio “ORIGINE DEL LATTE: ITALIA”.

Se le fasi di confezionamento e trasformazione avvengono nel territorio di più Paesi, diversi dall’Italia, possono essere utilizzate, a seconda della provenienza, le seguenti diciture:

– latte di Paesi UE: se la mungitura avviene in uno o più Paesi europei;

– latte condizionato o trasformato in Paesi UE: se queste fasi avvengono in uno o più Paesi europei.

Se le operazioni avvengono al di fuori dell’Unione europea, verrà usata la dicitura “Paesi non UE.

Sono esclusi solo i prodotti Dop e Igp che hanno già disciplinari relativi anche all’origine e il latte fresco già tracciato.”.

[21] Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie Generale, numero 15, del 19 gennaio 2017.

Il decreto è consultabile anche in internet al seguente indirizzo:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/01/19/17A00291/sg

[22] In base al suo articolo 7, comma 4, secondo periodo.

[23]Disposizioni applicative del decreto 9 dicembre 2016 concernente l’indicazione dell’origine in etichetta della materia prima per il latte e i prodotti lattiero-caseari, in attuazione del regolamento (UE) n. 1169/2011.

In: Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie Generale, numero 78, del 03 aprile 2017.

La circolare è consultabile anche in internet ai seguenti indirizzi:

http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/04/03/17A02419/sg

 

http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/normativa/circolari-note-direttive-e-atti-di-indirizzo/2036127-circolare-interministeriale-del-24-febbraio-2017-indicazione-origine-in-etichetta-della-materia-prima-latte-e-prodotti-lattiero-caseari

 

Le citazioni sono state verificate alla data di pubblicazione di questo contributo sul sito www.giorgiocannella.com .

FALSO MADE IN ITALY: ASPETTI GIURIDICI

Con l’espressione Italian sounding si indica il fenomeno per il quale, nel nome o nella grafica di un prodotto, vi è un richiamo alla italianità di esso la quale, in realtà, è inesistente, perché il richiamo in parola è operato attraverso l’imitazione di denominazioni, marchi o segni che appartengono, o a dei prodotti italiani autentici, o a degli oggetti e/o a dei luoghi inconfondibilmente italiani.

Premetto che la nozione di “paese d’origine” è la seguente: “Sono originarie di un paese le merci interamente ottenute in tale paese[1], mentre il “luogo di provenienza” è “qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento, ma che non è il «paese d’origine»[2].

In altre parole, nel caso di un prodotto interamente ottenuto nel paese A, che venga poi immagazzinato nel paese B e da lì successivamente commercializzato, il paese A è il paese d’origine, mentre il paese B è il luogo di provenienza.

Nelle vetrine del padiglione della Coldiretti alla Esposizione universale di Milano 2015[3] veniva denunciato pubblicamente il fenomeno dell’Italian sounding attraverso l’esposizione di alcuni prodotti alimentari acquistati nell’Unione Europea.

Infatti, alcuni dei prodotti esposti potevano “indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento[4], come ad esempio:

– “Pompeian oil” (olio pompeiano), prodotto negli Stati Uniti d’America, con la scritta in etichetta “olio extra vergine di oliva – prima spremitura a freddo” (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare

 – “Sono bello pizza quattro formaggi il gusto italiano”, prodotta in Russia, sulla cui confezione si vede anche il tricolore italiano sotto la scritta “Sono bello” (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare

– il formaggio “Cambozola” prodotto in Germania (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare

– il salame “Siciliano”, prodotto in Canada, con la scritta “Italian style salami à l’italienne” (salame all’italiana) e sulla cui confezione si vede la marca “Mastro” scritta all’interno di un ovale con i colori della bandiera italiana (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare

– la tanica di vino da 5 litri, marca “Ekens exklusiv” (Quercia esclusiva), prodotto in Svezia, con la scritta “Chianti Bianco 5 litri di succo d’uva concentrato di alta qualità Fornisce 20-23 litri di vino finito” (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare
Foto scattata con il mio cellulare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

– la confezione da 1,5 litri, marca “California Connoisseur” (California intenditore), prodotto in Canada, con la scritta “Barolo vino rosso   kit di vino di qualità da 1,5 litri se ne ottengono 4,5” (vedi foto).

Foto scattata con il mio cellulare
Foto scattata con il mio cellulare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Altri prodotti alimentari, invece, erano decisamente odiosi perché, alla possibilità di indurre in errore il consumatore sulla loro origine o provenienza, aggiungevano anche il vilipendio alla nazione italiana, come ad esempio:

– “caffè mafioZZo oro lo stile italiano”, prodotto in Bulgaria, sulla cui confezione c’è anche la raffigurazione stilizzata di un padrino della mafia che fuma una pipa con un sorriso beffardo (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare

– il barattolo di spezie triturate, prodotto in Germania, sulla cui etichetta c’è la scritta “Palermo Mafia shooting” (la mafia di Palermo che spara), con la raffigurazione in etichetta di una pistola automatica accanto alla parola “Palermo” (vedi foto);

Foto scattata con il mio cellulare

– la “Maffiasaus sauce maffia” (salsa mafia) prodotta in Belgio, il “Fernet mafiosi” prodotto in Germania e il “Chilli mafia” prodotto nel Regno Unito (vedi foto).

Foto scattata con il mio cellulare
Foto scattata con il mio cellulare
Foto scattata con il mio cellulare

Prima di procedere, desidero ringraziare tutti coloro che hanno allestito il padiglione della Coldiretti ad Expo Milano 2015 per avere portato alla mia attenzione queste realtà.

Preciso che, durante la mia visita al padiglione citato, non ho certo effettuato una analisi della composizione chimica degli alimenti che erano esposti nelle vetrine; come molti altri visitatori, mi sono limitato a scattare delle fotografie.

Pertanto, questo contributo non si soffermerà sulla alterazione della composizione organica degli alimenti, ma unicamente sul fenomeno dell’Italian sounding.

Nei casi appena descritti, il richiamo alla presunta italianità dei prodotti si concretizza nell’uso illegittimo dei marchi notori “Barolo” e “Chianti”, nell’impiego del nome “Cambozola” per richiamare alla mente il formaggio Gorgonzola, nell’uso dell’aggettivo pompeiano, nell’impiego delle espressioni “il gusto italiano” o “lo stile italiano” e infine nell’uso della bandiera italiana o dei suoi colori.

Ciascuno dei prodotti alimentari che ho elencato andrebbe contestato legalmente nel paese d’origine, nel luogo di provenienza – se è diverso dal paese d’origine – e nei paesi nei quali viene commercializzato.

Per un’azione legale di tal genere è necessario condurre – per ciascun prodotto – una ricerca all’interno della normativa vigente nei diversi ordinamenti giuridici coinvolti.

Questa ricerca dovrebbe prendere in esame l’ordinamento nazionale adito, quello sovra-nazionale eventualmente applicabile (ad esempio, il diritto dell’Unione Europea) e il diritto internazionale pubblico (le convenzioni internazionali per la protezione del marchio, del brevetto per modello di utilità e della registrazione di disegni e modelli).

Alla luce di ciò, il contributo che segue offre un’analisi introduttiva alla normativa applicabile al fenomeno dell’Italian sounding in Italia e all’estero.

Le branche del diritto italiano chiamate in causa da questo fenomeno sono molteplici.

Ogni caso da me citato, infatti, è rilevante per il diritto civile, per il diritto penale – in particolare per il diritto penale commerciale – e infine per il diritto industriale.

 

DIRITTO CIVILE

 

Nel campo del diritto civile, rileva in particolare la concorrenza sleale disciplinata dall’articolo 2598 del codice civile italiano[5].

Tra le varie forme nelle quali essa può esplicarsi, mi soffermo sulla concorrenza sleale realizzata tramite atti contrari alla correttezza professionale (articolo 2598, numero 3, codice civile).

Quest’ultima può realizzarsi tramite “tutti gli atti non conformi ai principi della correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda”.

La norma appena citata vieta tutte quelle fattispecie di concorrenza sleale che non sono già tipizzate nei numeri 1 e 2 che la precedono all’interno del medesimo articolo del codice.

I numeri 1 e 2 in parola riguardano la concorrenza sleale realizzata tramite atti di confusione, di denigrazione o di appropriazione di pregi.

La caratteristica di essere una norma contenitore di fattispecie non tipizzate conferisce al numero 3 dell’articolo 2598 l’elasticità necessaria per adeguare la tutela della concorrenza sleale all’evoluzione della vita economica e al sorgere di forme di concorrenza sleale sempre più raffinate.

I messaggi ingannevoli sono una delle modalità di espressione degli atti contrari alla correttezza professionale previsti dal numero 3 dell’articolo in esame.

La loro nozione è più ampia di quella del così detto mendacio concorrenziale, che pure rientra al loro interno.

Il messaggio ingannevole, infatti, consiste in qualsiasi comunicazione, rivolta ai potenziali consumatori di un prodotto o ai fruitori di un servizio, che non corrisponda alla verità, sia idonea ad ingannare i suoi destinatari e a causare un danno concorrenziale.

Per quanto riguarda il requisito della mancata corrispondenza del messaggio comunicato alla verità, va sottolineato che le confezioni e le etichette dei prodotti alimentari elencati all’inizio di questo contributo non contengono semplici menzogne innocue, affermazioni generiche o iperboliche.

Fattispecie, queste ultime, non idonee ad ingannare il potenziale consumatore e pertanto lecite.

Al contrario, le confezioni e le etichette in esame recano scritti o raffigurati dei messaggi nei quali vengono omesse notizie essenziali o ne vengono fornite di false (ad esempio, il Chianti e il Barolo non sono vini che devono essere allungati con l’acqua o con altre sostanze per ottenere il prodotto finale) o nei quali vi è inganno sul paese d’origine o sul luogo di provenienza reali del prodotto commercializzato (ad esempio, “Pompeian oil” per un prodotto originario degli Stati Uniti d’America).

L’ulteriore requisito della idoneità ad ingannare i potenziali consumatori va valutato con riferimento alla modalità della diffusione del messaggio presso il pubblico e al tipo di prodotto interessato.

Per quanto riguarda la modalità della diffusione del messaggio ingannevole, bisogna considerare che, nei casi descritti all’inizio, esso non viene diffuso tramite una campagna pubblicitaria sulla stampa specializzata, i cui lettori sono particolarmente esperti di quel settore e dunque più difficili da ingannare.

Al contrario, il messaggio ingannevole sul paese d’origine o sul luogo di provenienza del bene venduto è presente sulle confezioni e sulle etichette di prodotti messi in vendita al dettaglio nei negozi e nei supermercati.

Destinatari del messaggio, quindi, non sono gli esperti del settore che leggono una rivista specializzata, ma le persone comuni che vanno tutti i giorni a fare la spesa.

Per quanto concerne poi il tipo di prodotto interessato, il giudizio sulla idoneità del messaggio ad ingannare i consumatori si traduce in una condanna molto severa quando esso riguarda dei prodotti di largo consumo, come ad esempio quelli alimentari.

Il motivo di questa severità è dato dal gran numero di soggetti vittime potenziali o reali dell’inganno.

Per queste sue caratteristiche, la concorrenza sleale realizzata tramite un messaggio ingannevole si differenzia da quella realizzata tramite gli atti di denigrazione o di appropriazione di pregi disciplinata dal numero 2 dell’articolo 2598 del codice civile.

Questi ultimi due tipi di atti, infatti, colpiscono un concorrente determinato il quale, a causa di essi, subisce un danno concorrenziale.

Nel messaggio ingannevole, al contrario, non vi è un soggetto specifico e ben individuato che viene leso e, pertanto, il danno concorrenziale può riguardare anche una pluralità di soggetti o un intero settore economico.

Il fenomeno dell’Italian sounding, infatti, produce un danno concorrenziale che colpisce l’intero settore agro-alimentare italiano e ha una portata assai più vasta del danno provocato dalla contraffazione alimentare in senso proprio.

Nel periodo 2009-2012, “il valore della contraffazione dei prodotti agroalimentari sul mercato globale è stimato in oltre 6 miliardi di euro per i fenomeni di contraffazione in senso proprio e in 54 miliardi di euro per l’“Italian sounding”[6].

Per quanto riguarda, infine, la concorrenza sleale tramite atti di confusione (articolo 2598, numero 1, codice civile) occorre distinguere tre ipotesi.

Da una parte vi sono gli atti di confusione che si esplicano nella imitazione servile dei prodotti di un concorrente o in altri mezzi idonei a creare confusione.

Queste fattispecie si differenziano dalla concorrenza sleale tramite atti contrari alla correttezza professionale perché anche esse – al pari degli atti di denigrazione e di appropriazione di pregi – colpiscono un concorrente determinato.

Dall’altra parte, c’è l’ipotesi di uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri.

Per questa fattispecie si pone la questione della sovrapposizione della norma in esame con le disposizioni del Codice italiano sulla proprietà industriale[7] nel caso in cui i segni distintivi legittimamente usati da altri siano segni tipici, come la ditta, l’insegna e il marchio registrato.

Le espressioni “legittimamente usati da altri” e “produrre confusione” – impiegate nel testo dell’articolo 2598, numero 1, codice civile – indicano che, per azionare in giudizio questa norma, è necessario dimostrare il possesso di due requisiti.

Il primo è l’uso del segno distintivo, da parte del suo legittimo utilizzatore, anteriore nel tempo rispetto all’uso che ne ha fatto il suo imitatore.

Il secondo è la sovrapposizione territoriale dell’uso dei due segni; altrimenti, non vi sarebbe la confusione tra l’uso che del segno distintivo fa il suo legittimo utilizzatore e quello che ne fa il suo imitatore.

Se questi due requisiti non sono entrambi presenti, il legittimo utilizzatore di un segno distintivo tipico, colpito in Italia da atti di concorrenza sleale per confusione, potrà agire in giudizio unicamente con le norme del Codice della proprietà industriale.

Invece, nel caso in cui i requisiti descritti siano entrambi presenti, il legittimo utilizzatore di un segno distintivo tipico, colpito in Italia da atti di concorrenza sleale per confusione, potrà agire in giudizio usando l’articolo 2598 codice civile e il Codice della proprietà industriale in concorso tra loro.

Questa conclusione si ricava dal testo dell’articolo 2598 in esame che inizia dicendo “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale”… .

Se la norma in esame avesse voluto escludere il possibile uso di se stessa in concorso con le norme sulla proprietà industriale, avrebbe detto: al di fuori dei casi nei quali è applicabile la normativa di tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale… .

Infine, nel caso in cui i segni distintivi legittimamente usati da altri e colpiti in Italia da atti di concorrenza sleale per confusione siano segni atipici – come la sigla o l’emblema – il loro legittimo utilizzatore potrà agire in giudizio con l’articolo 2598 del codice civile.

Concludo la sezione dedicata al diritto civile ricordando che, ai sensi degli articoli 2599 e 2600 dell’omonimo codice, la sentenza che accerta il compimento di atti di concorrenza sleale “ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”; inoltre, condanna l’autore o gli autori degli atti al risarcimento dei danni e può ordinare che la sentenza stessa venga pubblicata.

 

DIRITTO PENALE

 

In questa parte del mio contributo, non mi soffermerò sulla analisi delle varie norme penali italiane rilevanti per la repressione del fenomeno dell’Italian sounding.

Mi limito unicamente a citare gli articoli 473, 474 – 474quater, 475, 517 – 517quinquies, 518 del codice penale italiano[8].

Desidero infatti soffermarmi sul diverso profilo del vilipendio alla nazione italiana che alcuni prodotti contraffatti recano sulle loro confezioni o etichette.

Ho citato alcuni casi di questo odioso fenomeno all’inizio di questo contributo, quando ho elencato alcuni prodotti i quali, oltre alla possibilità di indurre in errore il consumatore sulla loro origine o provenienza, contengono anche l’accostamento grafico e concettuale tra i nomi “mafia”, “mafioZZo”, “mafiosi”, da una parte, e l’Italia, la città di Palermo e il popolo italiano, dall’altra parte.

Il vilipendio alla nazione italiana è un reato previsto e punito dall’articolo 291 del codice penale italiano che recita: “Chiunque pubblicamente vilipende la nazione italiana è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000”.

Secondo la comune accezione del termine, il vilipendio consiste nel tenere a vile, nel ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all’entità contro cui la manifestazione é diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia[9].

Oggetto della condotta del vilipendere in questo reato è la nazione italiana, vale a dire la collettività degli italiani intesa come unità etica e sociale.

La sanzione decisamente blanda – consistente nella multa da mille a cinquemila euro – è rafforzata dal discredito sociale, conseguenza non giuridica della condanna per un tale delitto.

Accostare – come fanno i prodotti alimentari in esame – i nomi “mafia”, “mafioZZo”, “mafiosi”, da una parte, e l’Italia, la città di Palermo e il popolo italiano, dall’altra parte, significa presentare la nazione italiana come una nazione di mafiosi.

Questa affermazione, oltre a non corrispondere al vero, integra la condotta del reato che ho appena descritto.

Su questo punto è bene essere chiari.

È vero che in Italia la mafia esiste – come dimostrano le numerose sentenze di condanna passate in giudicato per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso – ma questo non implica che tutti gli italiani siano dei mafiosi.

Al solo e unico scopo di far comprendere l’estrema gravità della condotta in esame anche a chi non è italiano, mi accingo ora ad esporre degli esempi.

Preciso che essi sono frutto della mia fantasia e non hanno alcun intento offensivo, ma unicamente uno scopo didattico.

Premetto, infine, che la trattazione che segue contiene dei forti contenuti emotivi.

Ecco un primo esempio.

Immaginate che una impresa di un paese straniero ponga in commercio un prodotto il quale abbia sulla sua confezione le seguenti scritte: carbone per barbecue Auschwitz l’efficienza tedesca, con l’aggiunta della raffigurazione stilizzata di un forno crematorio con lo sportello aperto che lasci intravedere al suo interno del carbone.

Mi rivolgo ora ai lettori di nazionalità tedesca e gli domando: «Voi come vi sentireste in questo caso?».

Ribadisco che il prodotto che ho appena descritto non esiste, è solo un esempio frutto della mia fantasia che ha lo scopo di far comprendere a chi non è italiano la gravità della condotta criminosa di vilipendio alla nazione italiana realizzata dai prodotti alimentari dei quali sto parlando.

Al contrario, il “caffè mafioZZo   oro lo stile italiano”, prodotto in Bulgaria, sulla cui confezione c’è anche la raffigurazione stilizzata di un padrino della mafia che fuma una pipa con un sorriso beffardo, non solo esiste veramente, ma è anche in commercio[10].

Poiché sono convinto del fatto che un accordo amichevole è il modo migliore per risolvere una controversia, offro gratuitamente alla ditta che produce il “caffè mafioZZo” la mia proposta di una campagna pubblicitaria alternativa per il loro prodotto.

Per fare ciò, sono partito dalla considerazione in base alla quale – al di fuori del caso del marchio notorio – una confezione di caffè è un prodotto commercialmente valido per la qualità di caffè che contiene e non per il nome con il quale viene commercializzata.

Per questo motivo, propongo alla ditta che produce il caffè in parola di eliminare dalla confezione del prodotto il nome “mafioZZo”, l’espressione “lo stile italiano” e la raffigurazione stilizzata di un padrino della mafia e di mettere al loro posto quanto segue: “Caffè Tangra – tostato in alta quota – tutto l’aroma di montagna in una tazzina”, con la raffigurazione stilizzata della vetta del monte Tangra.

Tangra è il nome originario bulgaro del monte Mussala.

Con un’altezza di 2.925 metri sul livello del mare, è la cima più alta della Bulgaria e di tutta la penisola balcanica.

Si trova all’interno del Parco nazionale del Rila.

È noto, sia per la sua flora, sia per la sua fauna.

Sulle sue pendici, infatti, crescono il pino macedone e l’abete bulgaro, vi si può avvistare il picchio muraiolo e vi si trovano le sorgenti di tre dei maggiori fiumi della Bulgaria: l’Iskar, il Marizza e il Mesta.

Dalla vetta del monte – dove è presente una stazione meteorologica – si possono ammirare dei panorami splendidi.

Da lì, infatti, si vedono tutte le maggiori catene montuose della Bulgaria: la Vitoša, gli Antibalcani (in bulgaro, Sredna Gora, Media Montagna), i Monti Balcani (in bulgaro, Stara Planina, Vecchia Montagna), i Monti Rodopi, i monti Pirin, Osogovo e Ruj, oltre alle altre vette della catena del Rila: il Piccolo Mussala e l’Ireček.

Mi rivolgo quindi alla ditta che produce il “caffè mafioZZo” e gli domando: «Veramente per voi il Tangra, la sua natura e i suoi panorami meravigliosi sono meno attraenti del nome “mafioZZo” e della raffigurazione stilizzata di un padrino della mafia?».

Passo ora ad esporre un altro esempio, anch’esso frutto della mia fantasia.

Immaginate che una impresa informatica di un paese straniero pubblicizzi il suo nuovo software così: «Per comunicare con i colleghi di lavoro perdete molto tempo? Per arrivare alla versione finale di un documento di lavoro dovete fare riunioni continue, stampare lo stesso documento in molte copie e ristamparlo ancora dopo ogni correzione anche minima? Da oggi in poi tutto questo finirà. Con il nostro nuovo software potrete lavorare su un documento in contemporanea con i vostri colleghi di lavoro, anche se essi si trovano in luoghi diversi. Un nuovo modo di collaborare che semplificherà il vostro lavoro facendovi risparmiare tempo e denaro».

Immaginate anche che questa impresa informatica straniera decida di dare al suo nuovo software il seguente nome: Vichy – la collaborazione francese.

Mi rivolgo ora ai lettori di nazionalità francese e gli domando: «Voi come vi sentireste in questo caso?».

Ribadisco nuovamente che la campagna pubblicitaria che ho appena descritto non esiste, è solo un esempio frutto della mia fantasia che ha lo scopo di far comprendere a chi non è italiano la gravità della condotta criminosa di vilipendio alla nazione italiana realizzata dai prodotti alimentari dei quali sto parlando.

Al contrario, il barattolo di spezie triturate, prodotto in Germania, sulla cui etichetta c’è la scritta “Palermo Mafia shooting” (la mafia di Palermo che spara), con la raffigurazione in etichetta di una pistola automatica accanto alla parola “Palermo”, non solo esiste veramente, ma è anche in commercio[11].

Anche in questo caso, offro gratuitamente alla ditta che produce il barattolo di spezie “Palermo Mafia shooting” la mia proposta di una campagna pubblicitaria alternativa per il loro prodotto, con la convinzione che una soluzione amichevole sia il modo migliore per risolvere una controversia.

Come nell’esempio precedente, anche qui va sottolineato che – al di fuori del caso del marchio notorio – un barattolo di spezie triturate è destinato ad avere un successo commerciale per la qualità delle spezie che contiene e non per il nome che lo stesso reca in etichetta.

Per questo motivo, propongo alla ditta che produce il barattolo di spezie in parola di eliminare dalla etichetta l’espressione “Palermo Mafia shooting” e la raffigurazione della pistola automatica accanto alla parola “Palermo” e di mettere al loro posto quanto segue: “Föhn – miscela di spezie triturate – dai un tocco caldo e pungente ai tuoi piatti”.

Come è noto, il Föhn – in italiano, favonio – è un vento caldo e secco, discendente dal lato sotto vento di un versante montuoso, che può causare un aumento della temperatura fino a trenta gradi centigradi in poche ore.

Mi rivolgo quindi alla ditta che produce il barattolo di spezie in esame e gli domando: «Veramente per voi il Föhn, la sua forza e il caldo avvolgente che esso offre sono meno attraenti dell’espressione “Palermo Mafia shooting” e della raffigurazione di una pistola automatica?».

Espongo, infine, un terzo esempio, anche questo frutto della mia fantasia.

Immaginate che una impresa di un paese straniero ponga in commercio un prodotto il quale abbia sulla sua confezione le seguenti scritte: insetticida ecologico non lascia aloni, né cattivi odori li ammazza tutti senza sbagliare.

Immaginate anche che questa impresa straniera decida di chiamare il suo prodotto così: ETA il temperamento spagnolo.

Mi rivolgo ora ai lettori di nazionalità spagnola e gli domando: «Voi come vi sentireste in questo caso?».

Ripeto ancora una volta che il prodotto che ho appena descritto non esiste, è solo un esempio frutto della mia fantasia che ha lo scopo di far comprendere a chi non è italiano la gravità della condotta criminosa di vilipendio alla nazione italiana realizzata dai prodotti alimentari dei quali sto parlando.

Al contrario, la “Maffiasaus   sauce maffia” (salsa mafia) prodotta in Belgio, il “Fernet mafiosi” prodotto in Germania e il “Chilli mafia” prodotto nel Regno Unito non solo esistono veramente, ma sono anche in commercio[12].

Poiché resto convinto del fatto che un accordo amichevole è il modo migliore per risolvere una controversia, offro gratuitamente alle ditte che fabbricano i prodotti che ho appena citato la mia proposta di una campagna pubblicitaria alternativa per gli stessi.

Anche in questi ultimi casi vale la considerazione che – al di fuori del caso del marchio notorio – è la qualità del prodotto che conta e non il nome scritto sull’etichetta.

Per questo motivo, propongo alle ditte in parola di eliminare i nomi “maffia”, “mafia” e “mafiosi” e di mettere in etichetta al loro posto quanto segue: 

– “salsa Ghibli – il gusto persistente della senape” (o della diversa spezia il cui aroma risulta preponderante all’interno del prodotto), con la raffigurazione stilizzata delle dune del deserto;

– “Fernet degli Elfi – dai veri conoscitori del bosco, le erbe migliori per un amaro unico”, con la raffigurazione, su fondo bianco, della sagoma nera di un elfo mentre è intento a preparare un distillato di erbe oppure con un bicchiere di amaro in mano;

– “Chilli sombrero – rilàssati prima che lui ti scuota”, con la raffigurazione stilizzata di un paesaggio desertico con in primo piano un peperoncino che dorme con un sombrero in testa.

Mi rivolgo anche questa volta alle ditte che fabbricano i prodotti citati e gli domando: «Veramente per voi le dune del deserto, gli elfi e il bosco sono meno attraenti dei nomi “maffia”, “mafia” e “mafiosi”?».

Mi auguro che questi esempi portino ad un cambiamento di mentalità e che le idee pubblicitarie che escogiteremo insieme possano essere lo spunto per molte campagne promozionali di successo che cancellino per sempre tutti i casi di vilipendio alla nazione italiana che ancora sussistono.

 

DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

 

La normativa europea di contrasto al fenomeno dell’Italian sounding è molto ampia.

Qui di seguito ne offro una trattazione articolata in tre paragrafi.

Premetto che il regolamento è un atto normativo immediatamente efficace negli ordinamenti dei paesi membri dell’Unione Europea, senza bisogno di un atto nazionale di recepimento.

 

1 – RINTRACCIABILITÀ 

Dal 1° gennaio 2005 si applica la disciplina sulla “rintracciabilità degli alimenti, dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime” ricostruendone e seguendone il percorso “attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione[13].

Questa procedura comporta che, parallelamente al flusso delle merci, si sviluppi un flusso di informazioni che devono essere registrate e conservate ad ogni passaggio.

In concreto, gli operatori del settore alimentare e dei mangimi devono essere in grado di individuare, sia chi abbia fornito loro, sia le imprese alle quali loro hanno fornito, gli alimenti, i mangimi e le altre sostanze che ho citato per poter poi fornire queste informazioni alle autorità competenti che le chiedano[14].

Gli alimenti o i mangimi che sono, o probabilmente saranno, immessi sul mercato dell’Unione Europea “devono essere adeguatamente etichettati o identificati in modo da agevolarne la rintracciabilità[15]

Il regolamento in esame rinvia la definizione delle procedure di etichettatura secondo le quali tutto questo deve avvenire ad atti normativi che sono stati adottati successivamente ad esso[16] e dei quali parlerò nel paragrafo tre.

È bene sottolineare che il regolamento in parola non tutela solo la salute umana, ma anche gli interessi dei consumatori[17].

Questo significa “consentire ai consumatori di compiere scelte consapevoli in relazione agli alimenti che consumano” e – per quanto riguarda in particolare il fenomeno dell’Italian sounding – prevenire “le pratiche fraudolente o ingannevoli”, nonché “ogni altro tipo di pratica in grado di indurre in errore il consumatore[18].

Infatti, l’etichettatura, la pubblicità, la presentazione in qualsiasi forma degli alimenti o dei mangimi e le informazioni su di essi “non devono trarre in inganno i consumatori[19].

La rintracciabilità degli alimenti, quindi, è uno strumento molto prezioso per accertare se un prodotto alimentare è realmente italiano o vuole solo sembrare tale.

In Italia, esso è un valido aiuto, sia per le aziende unità sanitarie locali, sia per le forze dell’ordine, ai fini della tutela della salute umana e per la repressione dei reati in materia di prodotti alimentari.

Il legislatore comunitario ha in seguito emanato altri due regolamenti: il primo per la rintracciabilità degli imballaggi e dei materiali a contatto con gli alimenti, il secondo contenente delle norme sulla rintracciabilità degli alimenti di origine animale[20].

Anche questi ultimi due strumenti sono utili per la repressione del fenomeno dell’Italian sounding.

Il primo dei due, in particolare, poiché – come si vede nelle fotografie dei prodotti che ho elencato all’inizio di questo contributo – le informazioni sulla falsa origine o provenienza italiana di un prodotto alimentare si trovano proprio sull’imballaggio del prodotto stesso.

 

2 – DOP, IGP e STG

Il 03 gennaio 2013 è entrato in vigore il regolamento (UE) numero 1151/2012[21] che disciplina la denominazione di origine protetta (DOP), la indicazione geografica protetta (IGP) e la specialità tradizionale garantita (STG).

Dopo averne fornito le relative definizioni[22], il regolamento in parola prevede una tutela differenziata.

Sono previsti simboli diversi per dare pubblicità a ciascuna denominazione[23].

La Commissione dell’Unione Europea tiene due registri aggiornati e accessibili al pubblico, uno per le DOP e le IGP e un altro per le STG[24].

Per le DOP e le IGP, in particolare, sono vietati, sia gli atti di confusione, usurpazione, imitazione o evocazione del nome protetto, sia le indicazioni false o ingannevoli sulla origine, provenienza, natura o qualità essenziali del prodotto.

È previsto che ogni paese membro dell’Unione Europea designi una autorità nazionale deputata alla loro tutela[25].

In Italia questo compito è affidato all’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agro-alimentari – ICQRF[26].

In questo modo, oltre che a seguito di apposita segnalazione, la tutela delle DOP e delle IGP può avvenire anche per una iniziativa d’ufficio da parte della autorità nazionale competente.

Inoltre, il Comando Carabinieri Politiche Agricole e Alimentari – Nuclei Antifrodi Carabinieri, tramite il progetto “Desk anticontraffazione on-line”, prevede la possibilità per i consorzi di tutela, le associazioni di categoria e i singoli consumatori di inoltrare le segnalazioni di prodotti contraffatti o irregolari, sia tramite un apposito numero verde telefonico, sia all’indirizzo e-mail del Comando attraverso la compilazione della “scheda anticontraffazione”.

Infine, i consorzi di tutela e gli agenti vigilatori possono anche avvalersi del portale www.dop-igp.eu per poter avviare le procedure di contestazione e segnalazione – all’autorità competente in Italia o all’estero – dei casi di violazione delle disposizioni in materia di denominazioni registrate.

Per le STG è previsto il divieto di atti di confusione, usurpazione, imitazione, evocazione o induzione in errore del consumatore[27].

 

3 – ETICHETTATURA

Dal 13 dicembre 2014 si applica la disciplina sulla etichettatura degli alimenti destinati al consumatore finale e alle collettività[28].

Le finalità di fornire al consumatore le informazioni che gli consentano di effettuare una scelta consapevole, nonché quella di prevenire qualunque pratica in grado di indurlo in errore – che abbiamo già letto nel testo del regolamento sulla rintracciabilità degli alimenti[29] – vengono qui ribadite talmente spesso da farne dei temi centrali[30].

La normativa in esame parla espressamente di “diritto dei consumatori all’informazione[31].

Il regolamento (UE) numero 1169/2011, tuttavia, non si limita a ribadire quanto già affermato dalla normativa precedente, ma contiene anche un espresso divieto delle condotte tramite le quali si concretizza il fenomeno dell’Italian sounding[32].

Per rendersi conto dell’utilità a tale scopo del testo in esame, basta pensare alla possibile applicazione al formaggio “Cambozola[33] della norma sulla denominazione dell’alimento[34], oppure all’applicazione della norma sul paese d’origine o luogo di provenienza[35] al prodotto alimentare “Sono bello   pizza quattro formaggi il gusto italiano”, prodotta in Russia, sulla cui confezione si vede anche il tricolore italiano sotto la scritta “Sono bello[36].

Un ulteriore strumento di tutela sarà disponibile dal 09 maggio 2018, giorno in cui entrerà in vigore in Italia la disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011[37].

 

CONCLUSIONE

 

Il fenomeno dell’Italian sounding è contrastato da una ricca normativa italiana ed europea.

La varietà delle norme legislative e regolamentari in parola va considerata come un copioso arsenale a tutela dei produttori e dei consumatori di prodotti alimentari.

Spero di avere fatto comprendere a tutti, quindi, che combattere le contraffazioni alimentari e il fenomeno dell’Italian sounding serve a tutelare la salute, l’esperienza culinaria e il portafoglio di ognuno di noi, prima ancora che il settore agro-alimentare italiano.

Vedo già dei segnali incoraggianti di questo cambiamento di mentalità nelle vignette del disegnatore del New York Times Nicolas Blechman dal titolo “Il mistero del San Marzano”.

In esse, vengono denunciati i cloni dei noti pomodori italiani San Marzano e viene spiegato come distinguere i pomodori originali da quelli contraffatti.

Spero che un giorno le contraffazioni alimentari e il fenomeno dell’Italian sounding saranno solo un ricordo del passato che sussiste solo nelle vignette di qualche bravo disegnatore.

Ringrazio le lettrici e i lettori per il tempo e per l’attenzione che hanno dedicato a questo mio lavoro.

 

NOTE A PIE’ DI PAGINA       

[1] Vedi l’articolo 23, comma 1, del regolamento (CEE) numero 2913/92 del Consiglio del 12 ottobre 1992, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L302 del 19 ottobre 1992.

[2] Vedi l’articolo 2, comma 2, lettera g), del regolamento (UE) numero 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L304 del 22 novembre 2011.

[3] Da qui in poi, “Expo Milano 2015”.

[4] Vedi l’articolo 26, comma 2, lettera a), del regolamento (UE) numero 1169/2011, citato, che prevede, a tale riguardo, l’obbligo di indicare in etichetta il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’alimento.

[5] Regio decreto 16 marzo 1942, numero 262, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, numero 79, del 04 aprile 1942, e successive modificazioni e integrazioni.

[6] Vedi il comunicato stampa del 04 luglio 2014 del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali della Repubblica italiana che cita i dati del primo Rapporto Iperico Agroalimentare sull’attività del Nucleo Antifrodi Carabinieri nella “Lotta alla contraffazione in Italia nel settore agroalimentare 2009-2012”. Il comunicato stampa è presente sul sito internet www.politicheagricole.it alla data del 02 settembre 2015.

[7] Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, numero 52, del 04 marzo 2005, Supplemento ordinario numero 28, e successive modificazioni e integrazioni.

[8] Regio decreto 19 ottobre 1930, numero 1398, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia, numero 251 (Straordinario), del 26 ottobre 1930, parte prima.

[9] Vedi Corte costituzionale italiana, sentenza 30 gennaio 1974, n. 20, Considerato in diritto, paragrafo 5.

[10] Vedi la relativa fotografia all’inizio di questo contributo.

[11] Vedi la relativa fotografia all’inizio di questo contributo.

[12] Vedi le relative fotografie all’inizio di questo contributo.

[13] Regolamento (CE) numero 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2002, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L31 del 1° febbraio 2012; confronta l’articolo 65, secondo periodo. Gli articoli citati tra virgolette sono, rispettivamente, l’articolo 18, comma 1 e l’articolo 3, numero 15).

[14] Confronta l’articolo 18, commi 2 e 3, del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[15] Vedi l’articolo 18, comma 4, del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[16] Confronta l’articolo 18, comma 4, del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[17] Confronta l’articolo 1, comma 1, del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[18] Vedi l’articolo 8 del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[19] Vedi l’articolo 16 del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[20] Regolamento (CE) numero 1935/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 ottobre 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L338 del 13 novembre 2004; confronta l’articolo 1, l’articolo 17 e l’articolo 28, secondo periodo, che prevede l’applicazione della norma sulla rintracciabilità dei materiali e degli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari dal 27 ottobre 2006.

Regolamento (UE) numero 931/2011 della Commissione del 19 settembre 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L242 del 20 settembre 2011; confronta l’articolo 1 e l’articolo 4, secondo periodo, che prevede l’applicazione delle norme sulla rintracciabilità degli alimenti di origine animale dal 1° luglio 2012.

[21] del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 novembre 2012, così detto “Pacchetto qualità”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L343 del 14 dicembre 2012; confronta l’articolo 59, primo periodo.

[22] Confronta l’articolo 5, commi dall’1 al 3 e l’articolo 18, commi 1, 2 e 4 del regolamento (UE) numero 1151/2012, citato.

[23] Confronta l’articolo 12, comma 2 e l’articolo 23, comma 2, del regolamento (UE) numero 1151/2012, citato.

[24] Confronta gli articoli 11 e 22 del regolamento (UE) numero 1151/2012, citato.

[25] Confronta l’articolo 13, comma 3, del regolamento (UE) numero 1151/2012, citato.

[26] Confronta l’articolo 31 del decreto del 14 ottobre 2013 del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, Serie Generale, numero 251, del 25 ottobre 2013.

[27] Confronta l’articolo 24 del regolamento (UE) numero 1151/2012, citato.

[28] Regolamento (UE) numero 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L304 del 22 novembre 2011; confronta l’articolo 1, comma 3, l’articolo 6 e l’articolo 55, secondo periodo, che prevede due eccezioni: l’obbligatorietà della dichiarazione nutrizionale che si applica a decorrere dal 13 dicembre 2016 e i requisiti specifici relativi alla designazione delle carni macinate che si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2014.

[29] Confronta l’articolo 8 del regolamento (CE) numero 178/2002, citato.

[30] Confronta:

  • – i considerando 4, 18, 20, 24, 26, 27, 29, 34, 37, 39, 41, 42, 46, 47, 48, 51;
  • – gli articoli 1, commi 1, 2 e 3, primo periodo; 3, comma 1; 4, comma 2; 8, comma 4; 19, comma 2; 21, comma 2, primo periodo; 23, comma 2; 30, comma 6; 33, commi 1 e 5; 35, comma 1, lettere c) e d); 36, comma 2, lettera b) e comma 4; 39, comma 1, lettera b); 46; 49, primo periodo; 50;
  • – e l’allegato VIII, articolo 1, lettera a), punto IV;

tutti nel regolamento (UE) numero 1169/2011, citato.

[31] Confronta l’articolo 1, comma 2, del regolamento (UE) numero 1169/2011, citato.

[32] Confronta:

  • – gli articoli 7, comma 1, lettera a) e comma 4; 9, comma 1, lettera i); 13, comma 1; 14, comma 1; 17; 26, comma 2, lettera a) e comma 3; 36, comma 2, lettera a); 39, comma 1, lettera d) e comma 2; 
  • – l’allegato XI;

tutti nel regolamento (UE) numero 1169/2011, citato.

[33] Vedi la relativa fotografia all’inizio di questo contributo. Come ho già detto, il nome “Cambozola” mira a richiamare alla mente il formaggio italiano Gorgonzola.

[34] Confronta l’articolo 17 – in particolare, il comma 2, secondo periodo – del regolamento (UE) numero 1169/2011, citato.

[35] Confronta l’articolo 26, comma 2, lettera a), del regolamento (UE) numero 1169/2011, citato.

[36] Vedi la relativa fotografia all’inizio di questo contributo.

[37] Decreto Legislativo 15 dicembre 2017, n. 231, Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (UE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori e l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del medesimo regolamento (UE) n. 1169/2011 e della direttiva 2011/91/UE, ai sensi dell’articolo 5 della legge 12 agosto 2016, n. 170 «Legge di delegazione europea 2015», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, Serie Generale, numero 32, dell’08 febbraio 2018.

 

Le citazioni sono state verificate alla data di pubblicazione di questo contributo sul sito www.giorgiocannella.com .